INDICE
- Gli inizi
- Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato
- La I Guerra mondiale
- La “questione meridionale” e il “decentramento”
- Il meridionalismo concreto e maturo
- Monografie e opuscoli
- Dal Corriere delle Puglie alla Gazzetta del Mezzogiorno
- L’Ente Pugliese di cultura popolare e i riconoscimenti del Ministero della Pubblica Istruzione
- La Camera di Commercio Italo-Orientale
- La Fiera del Levante
- L’iscrizione al Partito fascista
- La Provincia di Bari: le realizzazioni
- Il CdA della Gazzetta del Mezzogiorno
- Il Comune di Bari: i problemi del tempo di guerra
- La fine del fascismo
- Agosto 1950: Peucezio
- La Puglia e il suo Acquedotto
- I tre volumi Gente del Sud
- Monografie e opuscoli
- La Società di Storia Patria
- L’Istituto del Risorgimento
- Biblioteca, archivio privato, emeroteca, scritti inediti
Michele Viterbo nasce a Castellana Grotte (Bari) l’8 ottobre 1890 da un’antica famiglia con tradizioni risorgimentali che risalgono ai moti antiborbonici del 1799.
Marco Lanera, cultore di storia locale e sindaco di Castellana dal 1970 al 1975, nel Ricordo di Michele Viterbo nel decennio della morte così scrive: «La […] formazione famigliare di Michele Viterbo fu schiettamente ispirata agli ideali del Risorgimento d’Italia, dietro l’esempio del padre, garibaldino di Mentana. La passione fu quindi essenzialmente civica e patriottica; ma presto arricchita da una viva e operante componente sociale. Egli si accorgeva benissimo, ancora molto giovane, che l’opera del Risorgimento esigeva di venir completata, mediante il riscatto delle plebi (soprattutto meridionali) che giacevano nella profonda totale abiezione, per colpa anche della ottusa classe dirigente che del programma risorgimentale aveva colto soltanto talune conseguenze economiche». Nel Dizionario biografico della Treccani, alla voce Michele Viterbo, Raffaele De Leo così integra questa descrizione: «In tale contesto Viterbo maturò una giovanile adesione al mazzinianesimo, i cui temi portanti concorsero in modo rilevante alla definizione del suo profilo culturale» (vd. p. 339 e 351 del Diario).
All’età di 15 anni il Nostro inizia a collaborare come corrispondente da Castellana per il Corriere delle Puglie, La Vita di Roma, Il Mattino di Napoli, ecc., firmando, molte volte con le sole iniziali o servendosi di pseudonimi (“Ego”, “Doctor”, “Lear”) oppure, per non autocitarsi, non firmando affatto.
Nel dicembre del 1906 il Corriere delle Puglie pubblica in prima pagina il suo primo articolo dal titolo Contadini, agricoltura e colonizzazione interna1. «In esso – scrive Nicola Coropulis – il giovane Viterbo […] avvertiva come la questione meridionale fosse essenzialmente questione di educazione e di cultura […]».
«A battesimo nella vita pubblica, scrive Michele Viterbo in Dagli ultimi re borbonici alla caduta fascismo (vd. p. 104-118), mi tenne Nicola de Bellis, una figura che ispirava simpatia e rispetto […]. In politica era un liberale di sinistra […]». «Nicola de Bellis aveva letto questi articoli e altri, anche di fondo, che sin d’allora pubblicavo sul “Corriere delle Puglie”, e quando nel 1907 era sorto, soprattutto per opera sua e per le sue insistenze, il Consorzio idraulico […] aveva voluto designare me, che avevo diciassette anni, a segretario del Consorzio»2.
Nel 1909 Viterbo fonda con Alfredo Violante, scomparso in Germania in prigionia nel 1945, una rivista intitolata Puglia Giovane che, dopo le elezioni di quell’anno, pubblica una documentazione dei brogli e dei soprusi con cui molti deputati avevano vinto la lotta politica in Puglia3.
Simone Pinto4, sindaco di Castellana dal 1995 al 2007, nelle sue ricerche su eventi antichi, ha rinvenuto una documentazione inedita riguardante gli anni giovanili di Michele Viterbo. Questi, infatti, promosse una serie di iniziative tra cui, il 12 dicembre 1909, la intitolazione di una strada per ricordare a Castellana la figura di Francisco Ferrer, pedagogista, anarchico e libero pensatore spagnolo che sosteneva l’idea di una scuola laica e libertaria. Ferrer, al suo rientro in Spagna, venne arrestato, processato e, il 13 ottobre 1909, giustiziato a Barcellona. Michele Viterbo, per queste sue attività, fu segnalato alle autorità di polizia e il suo nome inserito nello schedario politico dei “sovversivi”.
Nel 1910 il Nostro inizia una proficua collaborazione, che durerà molti anni, con l’influente Il Giornale d’Italia (vd. p. 308 del Diario) e, l’anno dopo, fa rappresentare una commedia in tre atti, La moglie del prefetto, che è una satira sulle concezioni politiche ed elettorali del tempo.
Proprio per contrastare questi sistemi, combattere il conformismo prefettizio e ministeriale, promuovere i pubblici interessi (la “massa” non si è ancora mossa e il governo Giolitti ha da poco approvato il tanto atteso suffragio allargato che porterà gli elettori di Castellana da 850 a 3000), Viterbo fonda, nel 1913, l’Associazione “Pro-Castellana”.
I maggiori problemi del luogo vengono discussi con gli amministratori locali in comizi e pubblici dibattiti a cui partecipano soprattutto, con vivissimo interesse e per la prima volta, le fasce sociali più umili (contadini e piccoli artigiani) con la collaborazione anche delle donne. Risultato: l’Associazione, dopo un anno, conta più di 600 soci e nelle elezioni amministrative del luglio 1914, con una propria lista, vince con 900 voti di maggioranza. Per tutta la durata del successivo mandato, l’Amministrazione municipale si incontra ogni mese con i soci della “Pro-Castellana” per rendere conto dell’opera svolta.
Raffaele De Leo, nel Dizionario biografico, definisce l’esperienza della Pro-Castellana: «significativa espressione del municipalismo democratico […]»5.
Durante la Prima guerra, la stessa Associazione dà vita al “Comitato di assistenza civile e morale”, che svolge lodevole opera per alleviare le sofferenze delle famiglie dei soldati al fronte.
«Viterbo, commenta Raffaele Colapietra (vd. nota 11), attraverso il sodalizio con Violante e Pesce, e la fondazione di “Puglia giovane” [trova] una collocazione politica e culturale ben precisa nell’ambito della sinistra democratica antigiolittiana meridionale».
Francesco Francavilla (op. cit.) scrive: «per alcuni suoi articoli comparsi su qualche giornale, chi lo disse socialista e chi repubblicano […]».
Raffaele De Leo, nella presentazione Treccani, così si esprime: «Negli stessi anni un crescente interesse per le condizioni e le lotte dei contadini lo avvicinò agli ambienti del movimento socialista barese e a figure come Giovanni Colella e Giuseppe Di Vagno [vd. p. 277 e 308-310 del Diario], con i quali entrò in rapporti amichevoli».
In quel medesimo periodo Viterbo è assiduo collaboratore del settimanale di orientamento antigiolittiano Humanitas, diffuso in tutta Italia e diretto dal repubblicano Piero Delfino Pesce (vd. nota 25), nonché della Rassegna Pugliese di Trani, della Rivista Popolare di Napoleone Colajanni, e, nel 1921-1922, de Il Mondo di Giovanni Amendola, della Critica Politica di Oliviero Zuccarini, de La Voce di Firenze, fondata da Giuseppe Prezzolini che il Nostro conoscerà a Roma a guerra finita.
Sulla “Pagina Meridionale” del Giornale d’Italia, Viterbo prende contatto dialettico con Gaetano Salvemini con articoli di argomento scolastico6.
Risale al 26 marzo 1912 la prima lettera che Salvemini indirizza a Michele Viterbo7: «Nel Suo articolo – scrive Salvemini – l’opera mia è discussa con serenità e onestà d’intenti. Ella […] non ha voluto rendere servigio a nessun politicante, insultando a sangue freddo me. Ella non gonfia le gote in nome di nessuna classe oltraggiata, non si aderge a vindice autorizzato di nessuna dignità offesa […] Ella è un uomo di buona fede e di buona volontà». «È l’inizio, commenta Aldo Vallone, dantista e storico della letteratura, di una collaborazione a distanza». Con altre lettere Viterbo viene sollecitato da Salvemini a scrivere su L’Unità, settimanale da lui fondato e diretto, di propaganda antiprotezionista per i maestri, di problemi elettorali nella provincia di Bari, del Consorzio dell’Acquedotto pugliese, del programma agrario in Puglia, ecc8.
Il rapporto fra i due, tra alti e bassi, dura fino al 1924 (vd. p. 146 del Diario). Nell’ultima scoraggiata lettera inviata da Gaetano Salvemini a Michele Viterbo si legge: «Quanto Ella mi scrive delle condizioni della provincia di Bari non mi sorprende. Dopo trent’anni d’esperienza, mi sono convinto che quello è un terreno di estrema difficoltà: forse il più difficile terreno che ci sia in Italia. E vorrei ingannarmi: ma temo non ci sia nulla da fare per chi vuole lavorare onestamente in un ambiente dove la furberia e la camorra dominano arcane, e la gente onesta si chiude nella vita privata».
Allorché il 6 settembre 1957 il fervente meridionalista scompare, Luigi de Secly, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, si rivolge a Michele Viterbo perché prepari lui, che l’aveva ben conosciuto, il “pezzo” da pubblicare sul giornale del giorno dopo9.
Nel Consiglio provinciale di Bari, scrive Matteo Fantasia, Michele Viterbo lo ricordò con queste parole: «Sono tra i pochi di questa aula che hanno avuto dimestichezza di rapporti con Gaetano Salvemini, del quale conservo molte lettere dal 1912 in poi. Non appartengo a quelli che rinnegano se stessi, sono stato politicamente contrario a Salvemini, ma riconosco il suo valore come storico e meridionalista».
Qualche anno dopo le prime lettere di Salvemini, Viterbo entra in corrispondenza, osserva Vallone, con «un’altra voce accorata», Giustino Fortunato. L’uomo politico così scrive il 13 febbraio del ‘17 a Michele Viterbo: «Io ammiro il suo amore ai problemi riguardanti la nostra povera regione natale. L’ammiro e plaudo. Ma perdoni a un pessimista: Ella vede troppo roseo»10.
Aldo Vallone, nella sua relazione11 dell’aprile 1987 sulla «significativa corrispondenza» dal titolo Michele Viterbo attraverso le lettere inedite di Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, così descrive questo similare rapporto letterario: «Sembra che poco ci sia di comune tra il giovane pugliese, che non ha ancora trent’anni, e il grande uomo politico assai innanzi negli anni: eppure v’è un legame strettissimo, non dissimile, sotto questo aspetto, da quello che si era stabilito con Salvemini: il meridionalismo, la passione per la propria terra, la piccola patria che non si trova nella grande nazione ritrovata […]».
Il primo successo oratorio del lontano 4 luglio 1907 (vd. p. 270 del Diario) – quando Michele Viterbo non ha ancora 17 anni – precede di poco l’edizione a stampa della stessa conferenza: Nel centenario di Garibaldi.
La seconda monografia (1908), Discorso per il XX Settembre, anch’essa ricavata da una conferenza, è dedicata al padre volontario garibaldino nella battaglia di Mentana del 186712. Le altre pubblicazioni, non tutte qui elencate, sono successive di qualche anno a queste prime due: Castellana nel Risorgimento nazionale; Castellana e le alluvioni attraverso i secoli; I problemi della Puglia nell’ora presente; I trulli di Alberobello e la loro storia; La tradizione pedagogica meridionale e Nicola Fornelli; Giuseppe Massari; Pietro Palumbo; Il Mezzogiorno e la legge Daneo-Credaro; Gli operai e la Patria; Un milite pugliese di quattro rivoluzioni: Raffaele Netti; L’avv. Ignazio Leone; Un pioniere delle industrie e seminatore di bene: Saverio de Bellis, ricavato dal discorso commemorativo tenuto dal Nostro a Castellana il 29 aprile 1919 e pubblicato lo stesso anno sulla rivista Conferenze e Prolusioni di Roma. L’opuscolo è stato ristampato, con foto d’epoca, nel 2006.
«La guerra mondiale, annota Viterbo, segna l’ora della grande illusione italiana». «Il maggio radioso, scrive Francesco Francavilla (op. cit.), non lo vide, pur essendo convinto della “necessità” della guerra, tra gli scalmanati propagandisti dell’intervento […]» e Raffaele Colapietra così conferma nella sua già citata relazione (vd. nota 11): «[…] quel giovane non si è lasciato travolgere dalla ventata interventista a cui pure ha criticamente aderito […]». «Ebbe, continua Nicola Coropulis (vd. nota 1), per pochi mesi l’opportunità di vivere la drammatica esperienza in prima linea. La bellissima “Lettera dal fronte” […] è un eccezionale documento di questa esperienza fatta di eroismo come di morte, di nobili idealità come di enormi sacrifici»13.
Il Nostro è in trincea la prima volta nel 1916 sotto Pedescala in Val d’Assa, tra i monti Cengio e Cimone, con il 145° Fanteria, e si guadagna la Croce di guerra. Poi, dopo la presa di Gorizia, viene trasferito prima a Topogliano e poi dislocato all’infernale Quota 144, ove la furia nemica investe il suo reparto. Durante il servizio militare viene colpito per ben tre volte da tifo causato dall’acqua inquinata fatta bere ai soldati (vd. p. 154 in Dagli ultimi re borbonici…).
«Anche la mia famiglia», scrive, «ha tre di noi al fronte e, come tante famiglie italiane, paga il suo tributo alla Prima guerra mondiale. Il più giovane, Oronzino, muore nel 1917 in Albania»14.
Alla fine del conflitto, con il grado di tenente (al congedo sarà promosso capitano), viene chiamato a Roma a far parte dell’Istituto Storiografico di Stato Maggiore, in collaborazione con Giovanni Borelli, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Marchi e altri studiosi e intellettuali. «In un vero ambiente culturale», commenta lo stesso Viterbo. Qui conosce il Maresciallo d’Italia Armando Diaz, al quale, dopo una breve corrispondenza, nel settembre 1937, da podestà di Bari, farà erigere un monumento sul Lungomare (vd. p. 92 del Diario).
Dal 1913 in poi pubblica decine di articoli sulla “questione meridionale” e sul “decentramento”.
La questione meridionale alla vigilia del suffragio allargato. Pagine di propaganda e di battaglia, edito da Humanitas, merita il giudizio favorevole di Fortunato, Salvemini e Colajanni, e contribuisce validamente alla difesa degli interessi regionali.
L’altro saggio del 1920, Un problema nazionale: il decentramento, con prefazione del ministro P. Chimienti, edito dalla Treves di Milano, viene molto apprezzato e raggiunge una considerevole tiratura. Dello stesso anno è Nazione giovane, ordinamenti vecchi, pubblicato sulla rivista Conferenze e Prolusioni.
Nel 1923 è ancora uno scritto su temi rilevanti, Il Mezzogiorno e l’accentramento statale, a documentare le gravi sperequazioni a danno del Sud Italia. Il volume, edito da Cappelli di Bologna, è commentato favorevolmente dalla stampa di ogni colore: da Tommaso Fiore su La Rivoluzione liberale a Sergio Panunzio su Critica Fascista.
Nel 1927 è la volta di Politica del lavoro nel Mezzogiorno (collana “Politeia” di Roma), considerato anch’esso con favore e ampiamente recensito.
«In quello stesso periodo, scrive Coropulis, Viterbo si segnalava come uno dei più vivaci ed acuti protagonisti della battaglia meridionalistica, alla luce dell’ingresso delle masse contadine del Sud nella vita pubblica nazionale che la guerra aveva realizzato».
L’impegno per una effettiva modernizzazione dell’economia e della giustizia sociale per le “plebi”, il problema agrario in Puglia, i tanti articoli, oltre i volumi già citati, avallati dalle opere pubbliche ricordate più avanti e che via via, soprattutto per iniziativa dello stesso Viterbo, si stavano, di fatto, realizzando, lo rendono espressione di un «meridionalismo concreto e maturo».
Nel 1915 il Nostro ha intanto presentato, dopo la pubblicazione in cinque puntate sul Corriere delle Puglie, la storia di un losco figuro: Un bandito pugliese del XVIII secolo: “Scannacornacchia”. Il volumetto, ormai da decenni introvabile, è stato riprodotto, nel 2005, in tiratura limitata.
Notevole è il numero delle monografie e degli opuscoli, editi dal 1916 al 1922, che, con qualche omissione, si citano: Tre precursori: Imbriani, Bovio, Cavallotti; Uomini di Puglia: Andrea Angiulli, Sigismondo Castromediano, Giuseppe Massari; Matteo Renato Imbriani e l’ora presente; Uomini di Puglia: Luigi Pinto, quest’ultimo concittadino del Viterbo, come il filosofo Andrea Angiulli a cui, il Nostro, farà innalzare una statua a Castellana; Quattro riformisti: Bissolati, Bonomi, Turati, Treves, sulla crisi del socialismo italiano e, ancora nel ‘24, dopo averlo trattato l’anno precedente, Sidney Sonnino, che è lodato per l’equanimità del giudizio storico e, in seguito, verrà tradotto in cecoslovacco, mentre Quattro riformisti: Bissolati, Bonomi, Turati, Treves sarà tradotto in francese.
Del 1922 è Un grande storico di Puglia: Domenico Morea che, nel 1962, viene ancora pubblicato nel primo centenario del liceo ginnasio di Conversano intitolato proprio a Morea.
Risale al 1928 la pubblicazione (una raccolta di solidarietà e partecipazione al dolore) dal titolo Silvia Viterbo una madre santa, dedicata a sua madre in occasione del secondo anniversario della morte.
Michele Viterbo, come è stato accennato all’inizio, collabora con il Corriere delle Puglie – che diverrà prima la Gazzetta di Puglia e, in seguito, La Gazzetta del Mezzogiorno – dall’ottobre 1905 al luglio 1943 e, come vedremo, dal 1950 in poi, con lo pseudonimo di Peucezio.
Dal 1925 al 1931, per conto della Gazzetta e della Camera di Commercio Italo-Orientale, cura con Sante Cosentino l’inserto quindicinale de La Gazzetta di Puglia, intitolato “Le Vie dell’Oriente”, con articoli di carattere economico-statistico-commerciale che sostengono gli scambi con i Paesi balcanici e dell’Oriente mediterraneo. Dal luglio 1927 alla fine del 1939 si occupa, ancora con Sante Cosentino, della Gazeta Shqipëtare, edizione albanese del quotidiano di Bari, con articoli che pubblicizzano le capacità italiane ed incentivano il commercio dei nostri prodotti.
Alla fine del 1923 (vd. p. 98-99 del Diario) Michele Viterbo, «prodigandosi, scrive Spagnoletti15, per assicurare ai giovani una qualificazione», fonda l’Ente Pugliese di cultura popolare e di educazione professionale16, che dirige sino al 1944 (vd. p. 198 e 250 del Diario).
L’Ente, «deputato a portare fra le masse quell’istruzione che le “cosiddette classi dirigenti” negavano loro, commenta Coropulis, realizza soprattutto nelle zone ancora infestate dalla malaria o nelle campagne più disagiate e lontane dai centri abitati della Puglia e della Basilicata – regioni sprovviste di opere educative – più di mille scuole rurali (diurne, serali, materne, professionali ecc.) per i figli dei contadini, contadini adulti, artigiani e operai privi, il più delle volte, di qualsiasi genere di istruzione. Queste scuole, chiamate anche “provvisorie”, vengono in parte edificate (alcune sono ancora riconoscibili nelle nostre campagne, vd. p. 272 in Dagli ultimi re borbonici…, oppure vd. il progetto pubblicato a p. 4 de La Gazzetta del Mezzogiorno del 4 maggio 1928), o, per lo più, ricavate e distribuite «in masserie, capanne di pastori, cappelle rurali e ovunque fosse possibile radunare i ragazzi […]».
«Le scuole furono spesso visitate da medici e in quasi tutte si provvide alla refezione calda quotidiana, oltre che alla distribuzione di indumenti e scarpe […]. Ovunque vi fosse una popolazione sparsa giunse l’opera dell’Ente Pugliese di cultura», rileva Ernesto Bosna, storico della scuola e pedagogista dell’Università di Bari, nella sua relazione dell’aprile 1987 dal titolo L’opera di Michele Viterbo in favore della cultura popolare in Puglia (vd. nota 11). «Ma non era soltanto della istruzione che avevano bisogno questi bambini, spesso allevati allo stato selvatico» … «I problemi non erano soltanto educativi ma igienici, sanitari, assistenziali, economici […] per cui la scuola, scrive Bosna, fu concepita da Michele Viterbo, come un piccolo centro di attività varie il cui benefico effetto doveva giungere anche agli adulti, i quali nelle ore serali si sostituivano nei banchi ai bambini».
«Ma un tale impegno, è sempre Bosna che scrive, non era giudicato ancora esaustivo delle necessità, per cui Michele Viterbo si propose di andare ancora oltre e pensò a corsi di cultura turistica […], a scuole di canto corale, di meccanica, di disegno ornato, di lavorazione degli arazzi, per motoristi, per trivellatori per la piccola irrigazione, di lavorazione del marmo, di taglio e cucito, di intaglio e ancora: di ricamo, di decorazione, di maglieria, per la lavorazione della cartapesta, investendo ormai tutta la regione da Apricena a Gallipoli, da Crispiano a Minervino con attività sempre crescente che neanche i tanto onerosi gravami amministrativi, che nel frattempo andava assumendo, fecero rallentare; anzi, al contrario, proprio le importanti cariche amministrative che ricoperse gli permisero di essere ancora più incisivo nella sua opera di promozione della cultura popolare e di impulso della economia pugliese»17.
Al termine della sua esperienza, Michele Viterbo, in Dagli ultimi re borbonici… (vd. p. 213), così riassume: «Nel complesso le scuole rurali e serali, gli asili d’infanzia rurali, i corsi per maestranze e le scuole artieri, fondati dall’Ente nel corso di venti anni, hanno costituito un innegabile apporto alla educazione del proletariato pugliese e lucano. Quello è stato il contributo che, con l’ausilio di competenti collaboratori, io ho potuto dare al problema di migliaia e migliaia di alunni che si sono avvicendati nel tempo frequentando le “scolette” dell’Ente Pugliese di cultura».
«Si trattò, scrive Matteo Fantasia, dello strumento più qualificato per la lotta all’analfabetismo e per la formazione artigianale capillarmente diffusa nei comuni, nelle frazioni e nelle campagne. Il Ministro dell’Educazione Nazionale (questo era allora il nome del Ministero della Pubblica Istruzione) ne riconobbe i meriti e il 28 marzo 1938 conferì a Viterbo la Medaglia d’Oro di benemerenza».
Lo stesso Ministero, nel marzo 1923, aveva premiato Michele Viterbo con la Medaglia d’Argento (vd. nota 6) e, nel settembre 1927, con la Medaglia d’Oro «per gli eminenti servigi da lui resi alla causa dell’educazione del popolo creando e incrementando l’Ente pugliese di cultura». Anche l’Ente, a sua volta, era stato gratificato, per le «imponenti realizzazioni», con la Stella d’Oro al merito della Scuola e indicato quale esempio in tutta Italia (vd. p. 98-99 del Diario).
Nel giugno 1966 Michele Viterbo verrà ancora premiato con Medaglia d’Oro, sempre dal Ministero della Pubblica Istruzione, quale «benemerito della scuola, della cultura e dell’arte»18.
Nel gennaio 1924, scrive ancora Spagnoletti (op. cit.), Michele Viterbo, «che un anno prima aveva animato la creazione dell’Ente Pugliese di cultura popolare, promuoveva la costituzione della Camera di Commercio italo-oriente» d’intesa con la Camera di Commercio ordinaria, presieduta da Antonio De Tullio, che diviene presidente anche della nuova Camera (vd. p. 98-99 del Diario).
Viterbo è nominato segretario generale e cura, sin dall’inizio con scarsissimi mezzi economici, come era avvenuto per l’Ente pugliese, l’organizzazione della nascente entità. In seguito diverrà direttore generale e, dal 1939 al 1943, presidente19.
Mario Dilio nel suo volume “Fiera del Levante” scrive: «In quell’epoca Viterbo era forse l’unica persona a Bari che aggiornava costantemente le statistiche sul commercio estero dell’Italia e sull’apporto della Puglia al movimento di export». Tre anni dopo la sua costituzione l’ente camerale ottiene la promozione a ente morale e giuridico, divenendo così la prima Camera di commercio mista (con Comune e Provincia) di tutta Italia; «predisponendo, sottolinea Dilio, altri importanti scopi e maggiori riconoscimenti» (la Fiera del Levante).
«L’iniziativa di far sorgere la Camera di Commercio Italo-Orientale si realizzò» – scrive, nel giugno 1987, Giuseppe Liantonio, segretario generale della Camera di Commercio di Bari, in un dettagliato articolo dal titolo Il contributo di Michele Viterbo all’economia del Mezzogiorno, pubblicato sul numero 3 di “Bari Economica”, rivista della Camera di Commercio – «in un momento di transizione per l’economia del nostro Paese e di molti Paesi orientali […] Bari era in una posizione di privilegio nei riguardi dei mercati orientali ed aveva bisogno di creare strumenti adatti per la ripresa degli scambi con i mercati levantini cui era legata da antiche relazioni. Tale importante funzione si proponeva di assolvere appunto la Camera di Commercio Italo-Orientale, che impostò la sua azione su due particolari direttrici: quella degli studi e quella della informazione […]. L’ente perciò approfondì lo studio delle esigenze attuali dei vari Paesi e si rese conto della necessità che attraverso Bari fossero intensificate anche le correnti di scambio delle altre regioni italiane, specie quelle del nostro retroterra meridionale. Perciò, mentre si interessava per aprire nuovi mercati verso l’Oriente europeo alle nostre primizie, svolgeva indagini per promuovere le esportazioni dei prodotti industriali italiani più richiesti sui mercati levantini».
Furono perciò istituiti specifici corsi annuali per preparare «un agguerrito manipolo di viaggiatori di commercio» ad una non facile battaglia di espansione mercantile. Il primo di tali fondamentali corsi, in cui tra l’altro vennero tracciate le linee guida da seguire in futuro, «fu inaugurato, scrive Liantonio, in presenza di tutte le autorità locali nel 1927 da Michele Viterbo […]».
Si procedette, nello stesso tempo, con l’insegnamento delle lingue (albanese, serbo-croato, greco moderno, arabo-egiziano, oltre all’inglese e al tedesco) parlate nei territori dell’Est europeo dove sarebbero stati inviati i rappresentanti di commercio.
Vennero creati uffici di corrispondenza, ampiamente reclamizzati, persino in Finlandia, India e Giappone. Si riuscì ad ottenere il sostegno e la collaborazione di alcune rappresentanze diplomatiche o commerciali all’estero. Si tennero incontri con i maggiori importatori ed esportatori nei Paesi ove gli stessi operavano.
«Alla organizzazione degli uffici della Sede di Bari era seguita subito quella di una fitta rete di corrispondenti in tutta la zona compresa nella sfera di attività dell’ente barese, […] che […] andò rapidamente estendendosi […]. Tali rappresentanti, commenta Liantonio, avevano il compito di segnalare notizie e provvedimenti che potessero interessare il commercio italiano e fornire nominativi ed informazioni necessarie per evadere le numerose richieste, che pervenivano alla Sede di Bari da ogni regione d’Italia […]. Questa attenta analisi di mercato […], mise l’ente in condizione di predisporre elenchi di importatori ed esportatori, che […] furono raccolti in fascicoli, arricchiti da note illustrative sulle loro caratteristiche economiche […]».
Scrive ancora Lioantonio: «Michele Viterbo merita di essere in particolar modo ricordato anche per il suo decisivo contributo ad un altro settore dell’attività locale: quello economico».
«Michele Viterbo, ricorda Dilio, svolse anche l’incarico, ricevuto dal Comitato promotore della Fiera, di preparare la prima relazione sui criteri organizzativi da adottare al sorgere della stessa e, in particolare, di elaborare la bozza dello statuto del nascente organismo [la Fiera del Levante]». Questa istituzione, precisa Spagnoletti, «sorse senza contributo dello Stato e grazie al mutuo contratto da Viterbo, nella sua qualità di Preside della Provincia, con il Banco di Napoli, per il finanziamento, al quale potette concorrere [anche] il Comune, perché a garantirlo fu l’Amministrazione provinciale».
«Operando, sottolinea De Leo nel Dizionario biografico, come segretario, poi direttore generale [della Camera di Commercio italo-orientale], Viterbo pose le basi per un’ulteriore realizzazione tesa a garantire una proiezione internazionale al Mezzogiorno: La Fiera del Levante»20.
Lettera inviata da Michele Viterbo al presidente della Fiera del Levante il 31 agosto 1972 (Archivio Viterbo).
Caro e chiar.mo Presidente,
Lei mi ha inviato anche quest’anno due biglietti per la Fiera, nella mia qualità di ex Consigliere di amministrazione della stessa.
In effetti tenni questa carica, in rappresentanza del Consiglio Provinciale, dal 1956 al 1960.
Ma io sono stato fra i pochissimi fondatori della Fiera del Levante e La prego di prenderne atto.
Della Fiera si cominciò a parlare quando, nel 1924, facemmo sorgere la Camera di Commercio Italo-Orientale, che la precorse. Costituimmo un Comitato permanente per la prima organizzazione della Fiera, Comitato che si adunava tutte le domeniche presso la Camera di Commercio. Presidente era Antonio De Tullio, ed io fui segretario generale.
Era nostro assiduo collaboratore il dott. Sante Cosentino.
Visitai con ogni attenzione, in nome di questo Comitato, le Fiere di Milano e di Padova nel 1925, ne trassi utili insegnamenti e ne riferii al Comitato stesso. Cosi gettammo le basi della Fiera, per la quale – bisogna dirlo – l’ambiente pugliese in genere era da principio alquanto scettico.
Conservo un’ampia documentazione sul febbrile lavoro del quinquennio 1924-29. Mie conferenze e discorsi a Genova, Roma, Milano, Napoli; pubblicazioni; articoli; relazioni a congressi e convegni; verbali di adunanze; lettere del De Tullio; articoli e lettere di di Crollalanza: tutto ho conservato. E mi accorgo che è giunto il tempo di avvalermi di questo materiale, visto che si vuole perseverantemente passare la spugna sull’azione di quegli anni di preparazione, della quale, anche individualmente, ho ragione di onorarmi.
Bisognava intanto provvedere al finanziamento della Fiera, giacché il milione accumulato con chiaroveggenza, attraverso gli anni, dalla Camera di Commercio non bastava a nulla. Proposi pertanto all’Amministrazione Provinciale di cui facevo parte, nello stesso anno 1925, uno stanziamento di due milioni. Purtroppo il Comune di Bari non potette fare altrettanto, non avendo la sovrimposta libera; tuttavia (era Commissario il comm. Ferorelli) deliberò di contrarre un mutuo per concorrere al finanziamento.
Ebbe concreti risultati la mia partecipazione al Congresso Nazionale di Napoli del 1926, presieduto dall’ex ministro Arlotta, personaggio allora autorevole, a cui intervennero moltissimi deputati, senatori e sindaci del Mezzogiorno, inclini ad aderire alla proposta, presentata dalla Camera di Commercio partenopea, e caldeggiata proprio dall’Arlotta, di avere un’unica Fiera meridionale, a Napoli. Ricordo che mi misi d’accordo con l’on. Restivo – deputato di Palermo e padre dell’ex Ministro della Difesa e dell’Interno – e insieme ci opponemmo alla proposta della “unicità” della Fiera napoletana, riuscendo a far votare un ordine del giorno a favore della Fiera del Levante, che per noi baresi fu in certo senso risolutivo. Ero il solo rappresentante di Bari presente, perché i nostri senatori, deputati e rappresentanti dei vari Enti erano tutti impegnati a Bari per la visita del Segretario del Partito, Farinacci.
Divenuto nel 1927 Preside della Provincia, ed essendoci in commissione – De Tullio, di Crollalanza, La Rocca, Gorjux, Ferorelli ecc. – recati dal Direttore Generale del Banco di Napoli on. Frignani, per domandargli un finanziamento di sei milioni a nome del Comune, della Provincia e della Camera di Commercio, avemmo una cortese ma amara risposta negativa, motivata dal fatto che il Comune di Bari, con la sovrimposta vincolata, non offriva le garanzie richieste dalla legge.
Allora fu la Provincia, da me rappresentata, a sostituirsi al Comune di Bari, e solo così fu ottenuto il mutuo in base al quale sorse la Fiera. La deliberazione dell’Amministrazione Provinciale (impegnativa per sé e per il Comune) mi procurò qualche critica in seno al Rettorato Provinciale a cagione appunto della garanzia offerta a Bari, ma soprattutto perché lo scetticismo sulla Fiera era diffuso più di quanto non si credesse.
Costituitosi il primo Consiglio amministrativo della Fiera, fui designato quale Vice Presidente a fianco del De Tullio Presidente e tale carica ricoprivo quando la Fiera fu inaugurata, nel settembre 1930. La ricoprii pure dal 1935 in poi, essendo Presidente Antonio La Rocca.
Tutto questo, caro Presidente, Le chiarii un giorno per telefono, e mi auguravo che Ella quest’anno rivedesse i suoi criteri e non mi inviasse i due biglietti quale Consigliere negli anni 1956-60.
Pertanto mi affretto a restituirglieli, con molti saluti.
Michele Viterbo
Michele Viterbo fino al 1922 è iscritto al Partito socialista riformista (vd. p. 72 del Diario) e il 16 novembre dello stesso anno è nella tribuna stampa della Camera dei Deputati, quando Mussolini «[…] pronunciò il famoso discorso del “bivacco”, che il presidente De Nicola ebbe la debolezza di ascoltare in silenzio […] e continuò a presiedere le adunanze successive come se nulla fosse accaduto […]» (vd. p. 102 del Diario).
«Era crollato un mondo! E per giunta, con allegra spensieratezza da parte dei ceti politici responsabili». «I sistemi elettorali, specie sotto il lungo dominio di Giolitti, avevano approfondito il solco che divideva il Parlamento dal Paese».
«Egli non esitò, scrive Nicola Coropulis, a schierarsi contro gli agrari, che pure erano il nerbo del potere fascista e, in un articolo pubblicato da Viterbo sulla Gazzetta di Puglia il 20 dicembre 1924 dal titolo Classe dirigente, ad accusarli di ‘oziare e accumulare e nient’altro‘, perpetrando situazioni non molto dissimili da quelle feudali».
Ma è più corretto riportare quanto scrive in proposito lo stesso Viterbo nel suo Diario (vd. p. 98-100). «Sino al 1924 non avevo eccessiva simpatia per il passato regime (ancora in pieno periodo Matteotti avevo scritto articoli contro i ministri fascisti De Capitani d’Arzago e Oviglio) in quanto detestavo, come ho sempre detestato, ogni forma di violenza, di abuso, di prepotenza, di sopraffazione. E queste preoccupazioni si allacciavano al problema della libertà individuale. Diffidavo di tanti fascisti che nel passato, al tempo dei “mazzieri”, erano stati strumento dei vari governi in diversi comuni del Barese. Nelle elezioni politiche del dicembre di quello stesso 1924 fui insistentemente pregato di entrare in una lista fiancheggiatrice, come una volta si diceva, e per evitare che di Crollalanza, allora segretario federale, Panunzio e altri amici di vari comuni mi trovassero e riuscissero, insistendo, a comprendere il mio nome, mi allontanai da Bari. Per inciso dirò che tutti i candidati di quella lista furono eletti. Successivamente però i progetti e le realizzazioni nella politica sociale che ponevano l’Italia ai primi posti nel mondo (vedi l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, il Dopolavoro, i Consigli tecnici o Gruppi di competenza), la più ferma e incisiva politica estera, l’orientamento antiplutocratico contro le sopraffazioni del capitale, i discorsi e i programmi di Mussolini, facevano apparire questo “nuovo mondo” così diverso dal precedente parlamentarismo. Così, quando nel maggio del ‘25 la sezione di Castellana mi iscrisse d’ufficio al partito, io accettai anche per un’altra valida ragione: continuare ad interessarmi dei due enti che nel frattempo avevo creato a Bari, e cioè l’Ente Pugliese di Cultura Popolare e la Camera di Commercio Italo-Orientale […]. Queste istituzioni, senza la mia adesione al fascismo, non avrebbero potuto avere un futuro facile. Entrato nel partito per la finestra e non per la porta, decisi di rimanervi con dignità e onore. Non avevo brigato per entrarvi, non ero legato ad interessi, non avevo partecipato agli eccessi e alle sopraffazioni degli squadristi: potevo dunque accettare il fascismo come molla di potenziamento e di espansione della Patria, affinché l’Italia conquistasse finalmente un suo ruolo in Europa e concorresse in prima linea a rianimare e riorganizzare il nostro vecchio continente. Il sogno che ci arrise in quegli anni fu di liberare l’Italia dalla povertà, di affrancarla da ogni soggezione al capitalismo internazionale, di assicurarle un degno posto nel riassetto economico e politico del mondo. La parola nuova, insomma, doveva dirla l’Italia proletaria, una parola di umana solidarietà alla Mazzini, in condizione d’indipendenza sia dal capitalismo sia dal comunismo» (vd. p. 98-99 del Diario).
Dal 1927 Viterbo viene nominato Commissario straordinario della Provincia di Bari e, nel 1929, Preside della stessa Istituzione21.
Matteo Fantasia, Presidente della Provincia di Bari dal 1962 al 1970 e al cui nome è intitolata l’Aula consiliare della Provincia, nella sua relazione dell’aprile 1987, dal titolo Michele Viterbo amministratore della Provincia di Bari (vd. nota 11) così scrive: «Della Commissione Reale, nel 1924, fece parte anche Michele Viterbo, che seguì l’attività provinciale con impegno e diligenza massima […]. Nel 1924 aveva già promosso l’istituzione dell’Ente Pugliese di Cultura e della Camera di Commercio Italo-Orientale, assumendone la Presidenza». Aveva operato «a favore della Università[22] (che sarà istituita nel 1924), presso il Ministro della Pubblica Istruzione, con il quale si impegnò a liberare il Palazzo Ateneo degli Istituti Medi in esso ubicati. Lo stesso dicasi per la Fiera del Levante per la quale girò in lungo e in largo per l’Italia per trarre utili esperienze, in materia di Fiere.
Furono tre anni, dal 1924 al 1927, di preparazione, di esperienze e di conoscenze di realtà diverse, che arricchiranno enormemente la sua personalità e la prepareranno degnamente ad assumere le maggiori responsabilità, che gli vennero attribuite […]».
«L’attività fu prodigiosa e le realizzazioni imponenti […]. Viterbo lavorò con ritmo tale da destare insieme ammirazione e invidia […]. Ci limiteremo, precisa Fantasia, ad elencare gli interventi più notevoli, rilevati dalle delibere e dalle relazioni […]. Al primo posto figurano le strade, la loro manutenzione, l’alberamento, i ponti […]. Tra le nuove vie di comunicazione [elencate nel primo dei volumi indicati nella nota 21] risalta quella della Rivoluzione», concepita per avvicinare a Bari Castel del Monte e la Murgia di Minervino. Si istituì la categoria dei cantonieri per la manutenzione e la pulizia delle strade; furono costruite le case cantoniere, via via disuse con l’aumentare del traffico. Nel 1927, «[…] fatto assolutamente nuovo [la Provincia di Bari fu la prima, o tra le prime, in Italia, ad istituire] il Corpo di Polizia Stradale, in bicicletta, per la disciplina nelle strade» (vd. p. 428 del Diario).
Furono affrontati i restauri di antichi monumenti, come il Castello Svevo di Bari, Castel del Monte, con il viale turistico “Apulia”, che fa da cintura al maniero, e l’allora cadente chiostro del Monastero benedettino di Conversano. Venne istituito «[…], fatto assolutamente nuovo, tra i primi in Italia, il Corpo di Polizia Stradale per la disciplina nelle strade». Il rifacimento del «[…] Palazzo della Prefettura, dove allora era ubicata [anche] la Provincia, l’Archivio di Stato, il Museo Provinciale e la Biblioteca Consorziale e, insieme, gli edifici scolastici, dall’Istituto Tecnico «G. Cesare», che, sloggiato dal Palazzo Ateneo, ebbe la nuova [sede], al Convitto Nazionale e al Liceo Scientifico».
Occuparono un posto di rilievo le opere assistenziali come gli Istituti di Andria, Molfetta, Bitonto e Giovinazzo; i primi dispensari antitubercolari come la Villa Romanazzi di Putignano, acquisita per questo scopo; il Preventorio di Molfetta intitolato a Edoardo Germano, ecc. Insomma, un numero imponente di necessarie opere pubbliche, eseguite senza aumentare la tassazione.
«Viterbo in questi quattro anni (1927-1931), scrive sempre Fantasia, fu dominato dall’idea della grande Bari, grande non tanto per le dimensioni e per la popolazione, quanto per i livelli culturali e di sviluppo economico. Per questi obiettivi non vi era che l’Ente Provincia, che, oltre che organo amministrativo per gli ordinari compiti d’Istituto, fosse «organo di azione dinamica e sotto questo aspetto di organo politico, ma politico nel buon senso aristotelico, cioè in senso costruttivo» […]. Da questa convinzione e visione nacque l’idea delle grandi realizzazioni, prime fra tutte […] la Fiera del Levante, […] la Pinacoteca Provinciale» (Michele Gervasio, direttore del Museo archeologico e, nel 1928, anche della Pinacoteca, così scrive: «di questa si parlava, nientemeno, dal 1891, ma l’aspirazione era rimasta lettera morta fin quando non si trovò a capo dell’Amministrazione Provinciale un temperamento realizzatore come Michele Viterbo» – vd. p. 424-427 del Diario); il Campo di aviazione di Palese, che costituì la premessa alla Zona aerea militare poi destinata a Bari. Nell’articolo de La Gazzetta del Mezzogiorno del 6 aprile 1960, Peucezio ricorda che il Campo di aviazione fu allestito dalla Provincia in un solo anno – vd. p. 429 del Diario); il Consorzio per la bonifica del Locone (ora bonifica della Fossa premurgiana), fatto ospitare nei primi tempi, pur di iniziare ad operare, negli stessi uffici dell’Amministrazione provinciale e che «fu il punto di partenza, scrive Fantasia, per la redenzione di quelle terre allora afflitte dal flagello della malaria».
Matteo Fantasia definisce quel periodo «l’età d’oro della provincia e della città di Bari». E ancora: «Si trattò davvero di un ritmo impressionante di realizzazioni che fecero in quegli anni di Bari una vera metropoli […] e che oggi fanno la grandezza autentica della città».
Nel periodo in cui ricoprì le cariche di Commissario straordinario e di Preside della Provincia, Michele Viterbo non percepì alcuna indennità di carica (vd. p. 458 del Diario).
«Sorprende pertanto, non può non rilevare Fantasia, come improvvisamente, nel gennaio 1931, Viterbo rassegnasse le dimissioni, quasi a metà percorso del suo mandato […]». E «furono fatti cadere, scrive lo stesso Viterbo, l’uno dopo l’altro i miei progetti, che stavano per essere tradotti in atto e che mi erano costati tanta fatica […]» (vd. p. 60 del Diario e p. 224 del volume Dagli ultimo re borbonici…)23.
«Ebbi probabilmente il grave torto, scrive ancora Viterbo, con la mia febbre d’azione, di scatenare le gelosie politiche. Forse alcuni non tolleravano che cospicue e continue realizzazioni si succedessero in quell’Amministrazione della Provincia cui per tanti anni s’era fatta taccia d’una certa sonnolenza; che l’analfabetismo fosse sul serio in diminuzione per opera dell’Ente pugliese di cultura e che la Camera di Commercio Italo-Orientale andasse annodando positivi rapporti con i mercati d’Oriente.
La gelosia politica non perdona e si tentò di fare il vuoto intorno a me. […] mi si aizzò contro lo squadrismo fascista, perché iscritto al partito solo dal 1925. Quante volte mi son sentito rimproverare questa scarsa anzianità da gente che poi, dopo il 25 luglio ‘43, si è affrettata a cambiare casacca […]» (vd. nota di p. 256 in Dagli ultimi re borbonici…).
Michele Viterbo è stato Presidente del Consiglio di amministrazione de La Gazzetta del Mezzogiorno dal novembre 1933 al marzo 1940.
Nel volume pubblicato postumo Dagli ultimi re borbonici…, così egli stesso scrive: «Nel 1933 mi vidi improvvisamente nominato presidente del Consiglio d’amministrazione de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, le cui scritture contabili stavano per essere depositate in Tribunale per dar corso alla procedura fallimentare; e in collaborazione con Giovanni Costantino e Felice Profilo riuscii a raddrizzare l’amministrazione del giornale, che divenne in rapido giro di tempo uno dei più attivi d’Italia ed eliminò tutti i debiti». Per la carica ricoperta Michele Viterbo non percepì nessun compenso (vd. p. 457 del Diario).
Del 1934 e del 1937 sono l’opuscolo Il Santo del lavoro (Don Giovanni Bosco) e il volumetto illustrato Bari e San Nicola nell´850 anniversario della traslazione della reliquia da Mira a Bari.
Dall’aprile 1935 all’aprile 1943 Michele Viterbo ricopre la carica di podestà di Bari24.
«Egli ricevette le consegne», scrive lo storico della città di Bari Vito Antonio Melchiorre nella sua relazione dell’aprile 1987, dal titolo Il Comune di Bari e l’Amministrazione Viterbo 1935-1943 (vd. nota 11), «in un momento non felice per la vita del Comune, malgrado gli auspici trionfalistici dell’amministrazione di Crollalanza che aveva trasformato il disavanzo economico di oltre 2 milioni del bilancio in un avanzo economico di 2 milioni e mezzo […]. Quando infatti Viterbo prese le redini dell’azienda municipale, il bilancio tornava a registrare cifre in rosso, per l’incapacità della nuova normativa sulla finanza locale […]. In parole più semplici, egli ricevette in consegna una somma di debiti consolidati per oltre 100 milioni di lire e impegni per mutui passivi, cui corrispondeva un onere annuo di quasi 8 milioni per ammortamento e interessi; cifre davvero considerevoli per quell’epoca […]» (vd. p. 59 e 436-437 del Diario).
Melchiorre così continua: «Con una serie di abili transazioni, di opportune trattative, di felici operazioni bancarie ma, soprattutto, di rigorose economie», Viterbo inizia a invertire la tendenza e «offre alla città il meglio delle sue capacità di amministratore […]». «Il lavoro che Viterbo riesce a svolgere nello spazio degli anni si presenta imponente».
Melchiorre e Spagnoletti forniscono l’elenco delle realizzazioni eseguite nonostante le difficoltà finanziarie affrontate nel corso dei due mandati: istituti scolastici (tra cui il liceo ginnasio Orazio Flacco, il Gimma, l’Umberto I, ecc.), scuole materne, case popolari, l’avvio di nuovi quartieri25, nuove strade, reti fognanti, nuovi padiglioni al Policlinico (dopo aver ottenuto nel 1940, con una legge integrativa, che la maggiore spesa residua sarebbe ricaduta sullo Stato e non sul Comune). Lavori alla Cattedrale, alla Basilica di San Nicola, anche nel periodo bellico (vd. p. 448-449 del Diario), al nuovo porto, ancora non terminato, allo stadio della Vittoria, alla pineta di San Francesco sdemanializzata e acquisita dal Comune. E ancora: giardini pubblici al Castello, al Corso Trieste, alla Muraglia e in piazza Garibaldi. Nuovi mercati rionali, belvedere a ridosso del lungomare Imperatore Augusto, arricchito da colonne romane, riscatto dell’albergo delle Nazioni e della Chiesa russa, ecc.
«Tutte queste cose», precisa Melchiorre – che quantifica anche il vantaggio economico apportato al patrimonio comunale (vd. op. cit., e anche p. 446 del Diario) – «inequivocabilmente traspaiono dagli atti deliberativi del podestà Viterbo, né la retorica patriottica e di regime dei mezzi di propaganda di allora potrebbe assolutamente scalfire la verità dei fatti, documentabili in molti modi e persino attraverso la testimonianza dei molti che videro».
Poi si giunge alla guerra. Bari città di frontiera per l’incauto attacco alla Grecia, che portò gli inglesi, dagli aeroporti greci, in casa nostra. Sforzo bellico e ripercussioni dannose, crisi dei trasporti urbani, inadeguatezza del porto e della stazione ferroviaria di fronte al traffico militare, mancanza di generi alimentari … ecc.
Scrive Melchiorre, e conferma Spagnoletti: «Di fronte a tanta catastrofe, Michele Viterbo, […] fronteggiò l’emergenza, […] prodigandosi sino al limite di ogni sacrificio personale, nel corso dell’intero conflitto, per alleviare i gravissimi disagi della popolazione, specialmente nel campo dell’alimentazione».
«Alla data del 10 aprile 1943, riporta Melchiorre, quando passò le consegne del Comune […] Michele Viterbo dichiarò testualmente di aver dovuto fronteggiare per l’intera durata del suo mandato durissime difficoltà finanziarie. Aggiunse, con legittimo orgoglio, che “se le opere rinnovatrici che hanno fatto di Bari una delle più belle e grandi città d’Italia non fossero state costruite allora, esse non sarebbero sorte mai più“».
«Concludeva il suo indirizzo di addio, con queste parole: “ciò che era umanamente possibile fare l’Amministrazione che oggi cessa di essere lo ha fatto”. […] In segno di riconoscenza, gli venne donato un quadro di San Nicola e fu questo l’unico segno tangibile, perché anche alla modesta indennità di carica di lire 12mila lorde all’anno […] aveva spesso rinunziato, devolvendola ad opere di beneficenza».
Il piccolo quadro di San Nicola, insieme ad altre opere pittoriche, è stato donato, nel 2010, al Comune di Castellana. L’indennità di carica, che dal 1927 era stabilita in lire 4.000 mensili, era stata, da lui stessa, ridotta a lire 1.000 (vd. p. 459 del Diario).
De Leo, nel Dizionario biografico Treccani, così riassume: «Pur operando tra ristrettezze e avversità, svolse l’incarico con forte spirito di iniziativa prestando particolare attenzione all’edilizia popolare, agli istituti scolastici e all’iter realizzativo dell’ospedale Policlinico».
Francesco Francavilla (op. cit.) scrive: «lasciò ricordo di saggia e limpida amministrazione e di qualche gesto generoso verso amici antifascisti, mai di faziosità e di clientelismo».
Spagnoletti e Melchiorre concludono col dire: Michele Viterbo va annoverato tra i benemeriti costruttori della città di Bari ed è stato, negli anni successivi, l’artefice della toponomastica della città nuova.
Il Comune di Bari, in coerenza con quanto è evidenziato nella introduzione e nella postfazione del Diario, gli ha intitolato un breve tratto di una strada al rione Japigia.
«Fu proprio un articolo di storia sul ruolo svolto dall’Italia meridionale nell’area mediterranea in età medievale, scrive Nicola Coropulis, l’ultimo che Michele Viterbo firmò con il proprio nome sulla Gazzetta del Mezzogiorno: era il 23 luglio 1943. Di lì a poche ore una storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo avrebbe portato alla destituzione di Mussolini, aprendo il varco al crollo definitivo della dittatura. Travolto dalla caduta del regime cui sino in fondo era rimasto fedele, condannato al confino ma poi assolto in quanto «amministratore dalle mani nette […]».
A p. 307 del volume Dagli ultimi re borbonici…, Michele Viterbo, ricorda ciò che vide: «Poi i tempi divennero duri e giunse l’ora del “si salvi chi può”. Si salvarono le “facce toste” e i profittatori di ogni situazione. Si salvarono quelli che furono lesti a far “pollice verso” su tutto ciò che ieri ancora avevano esaltato […]». E più avanti: «Io conoscevo uno per uno i vecchi e veri antifascisti di Bari e provincia… Con tutti questi uomini di rettilinea fede ebbi sempre rapporti ispirati a sensi di reciproco rispetto[26] […]. Poveri e scherniti antifascisti che quasi si contavano sulla punta delle dita tanto erano pochi! Come va che oggi gli antifascisti sono una fiumana, compresi ex deputati del regime, ex ispettori federali, ex “fedelissime camicie nere”? […] E anche a me quasi nessun torto è venuto dai vecchi antifascisti […] e invece tutti i torti mi son venuti da ex iscritti al partito di Mussolini, ora in affannosa ricerca di una nuova verginità politica […]».
«A mio modo di vedere la lotta che già affiorava contro il sottoscritto nell’ambito del fascismo locale[27] si prolunga ora attraverso i nuovi partiti perché troppi fascisti, cambiata casacca alla svelta, si sono affrettati ad iscriversi all’antifascismo, a divenire cioè democristiani, liberali, socialisti e finanche comunisti. Così stanno le cose».
Scrive Ennio Bonea su La Gazzetta del Mezzogiorno del 7 gennaio 1982: «Seguirono sette anni di silenzio […] durante i quali [Michele Viterbo] dovette sopportare le reazioni aggressive di chi gli rimproverava l’adesione al fascismo da posizioni liberalsocialiste e repubblicane, ma tentava soprattutto di screditarlo sul piano morale. Ne venne fuori la limpidezza del comportamento amministrativo e la pulita rettitudine della sua gestione che valsero a riportarlo sulla scena politica […] e a reinserirlo nella vita giornalistica […]».
In quegli anni non facili, Viterbo scriverà le tre opere ricordate più avanti, che saranno via via pubblicate a partire dal 1987.
«Negli oltre 500 articoli, ricorda Coropulis, che Michele Viterbo con lo pseudonimo Peucezio, scrisse per la Gazzetta dal 1950 al 1972 (e poi raccolti da Laterza in poderosi volumi dal significativo titolo di Gente del Sud) rivive per intero la storia della Puglia e dell’Italia meridionale, dagli albori della civiltà alle vicende post-unitarie…». «La particolare attenzione dedicata da Peucezio al ruolo del Sud nelle complesse vicende pre e post-risorgimentali e all’insorgenza della questione meridionale, non appena costituito lo Stato unitario, testimonia l’impegno di riscrivere la storia meridionale alla luce di un’interpretazione del Risorgimento «non come rivoluzione tradita, ma come lento e faticoso processo di rinnovamento in cui il contributo delle province meridionali non fu inferiore a quello delle regioni settentrionali».
Dal 1952 al 1960 il Nostro viene eletto consigliere provinciale nel Collegio di Castellana-Putignano-Noci.
Fantasia, anch’egli nello stesso periodo nel Consiglio provinciale, lo ricorda come «lo storico del Consiglio…, tra i più presenti e i più assidui a stimolare e a promuovere iniziative» (vd. sopra).
Al primo biennio risalgono due opuscoli: Il turismo in provincia di Bari, edito a cura dell’EPT e ricavato da un suo intervento al Consiglio provinciale, e Attività dell’Amministrazione provinciale di Bari. Esame critico. Nel secondo quadriennio, pur sedendo sui banchi dell’opposizione quale indipendente di destra28, «per il suo comportamento esemplare», scrive Fantasia, viene nominato componente del Consiglio dell’Unione delle province pugliesi e del Consiglio della Fiera del Levante.
È doveroso ricordare che Viterbo è il primo a portare in discussione nel Consiglio provinciale i problemi del turismo e del potenziamento dell’Acquedotto Pugliese (molte località non sono ancora servite)29, e a iniziare e sostenere le trattative che si concluderanno con il passaggio della Biblioteca De Gemmis alla Provincia.
Tra le opere più note del secondo dopoguerra si cita La Puglia e il suo Acquedotto, Medaglia d’Oro del “Premio Mezzogiorno” nel 1954 (Laterza 1954, 1991, 2010). Nella motivazione del riconoscimento si legge: «La Commissione segnala il contributo assai meritevole di Michele Viterbo che con il suo volume non soltanto ha scritto la storia della più grandiosa opera pubblica costruita per la rigenerazione economica e civile del Mezzogiorno, ma ha illuminato con il corredo delle ricerche laboriose e pazienti il lungo travaglio della regione pugliese per assurgere a più umane condizioni di vita sociale».
Anche l’Acquedotto Pugliese gli conferisce la Medaglia d’Oro «per aver collaborato nel campo dell’ingegno alla realizzazione, al potenziamento e alla conoscenza dell’Acquedotto Pugliese».
Il volume merita un lusinghiero commento di Luigi Sturzo, che vuole conoscere personalmente l’Autore, con cui in passato aveva polemizzato attraverso la stampa a proposito dell’ordinamento regionale. La seconda edizione del 1991 ha l’introduzione del presidente dell’Ente Emilio Lagrotta e viene presentata a Bari da Luigi Masella, Gino Dato e Antonio Rubino. L’ultima edizione del 2010 è pubblicata per iniziativa dell’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Puglia, con introduzione dell’assessore Fabiano Amati, anch’egli appassionato cultore del vitale problema dell’acqua. Il volume è presentato presso la Libreria Laterza e recensito, su La Gazzetta, dallo storico Vito Antonio Leuzzi.
Di grande valore, come si è già accennato, sono i volumi, editi sempre da Laterza, Gente del Sud (1959) e Da Masaniello alla Carboneria (1962); quest’ultimo con introduzione dello storico Raffaele Ciasca. Le due opere, nel dicembre 1964, sono premiate dall’Accademia Pontaniana di Napoli. Nelle relazioni degli storici Nino Cortese, Gino Doria e Angela Valente ne vengono messe in risalto la validità delle stesse, il grande amore dell’autore per la terra meridionale e la sua profonda conoscenza della storia del Sud.
Il terzo volume Il Sud e l’Unità (1966), che completa la trilogia, tratta il periodo storico a partire dal 1820-1821, sino all’indomani della Prima guerra mondiale, con particolare attenzione al fenomeno del brigantaggio postunitario.
La seconda edizione dell’intera trilogia, pubblicata nell’aprile 1987, porta il sottotitolo Gente del Sud, attribuito, in origine, al primo volume, ora ribattezzato Antiche civiltà. La seconda edizione è presentata da Matteo Fantasia (vd. nota 11), quale presidente del Comitato di Bari dell’Istituto del Risorgimento, succeduto a Viterbo, e ha l’introduzione di Aldo Vallone dal titolo Ricordo di Michele Viterbo.
La critica giudica con ogni favore le tre opere, che sono recensite, tra gli altri, da autori del valore del Gabrieli, del Valsecchi e, ancora, del Ciasca e vengono segnalate in seduta pubblica, con parole di alto elogio, all’Accademia dei Lincei, da Luigi Salvatorelli. Questo giudizio è stato poi riportato nella sua recensione sulla Stampa di Torino. Luigi Sturzo, anche questa volta, esprime un parere favorevole e ritiene di aggiungere: «Da molti anni seguo con vivo interesse gli scritti che Viterbo pubblica […]».
Nel 2011 viene data alle stampe una nuova edizione del solo volume Il Sud e l’Unità, con postfazione del governatore della Puglia Nichi Vendola. Con il “logo” dei 150 anni dell’Unità d’Italia, l’opera rappresenta la Puglia alla mostra dei volumi celebrativi esposti nelle sale del Vittoriano e viene recensita, e poi presentata presso la Libreria Laterza di Bari, dagli storici Vito Antonio Leuzzi e Giuseppe Poli, presidente del Comitato di Bari dell’Istituto del Risorgimento.
Di seguito si elencano le monografie e gli opuscoli pubblicati a partire dal 1953: Salvatore Cognetti-De Martiis; Giuseppe Capruzzi; Il trentennale dell’Università (e in Gazzetta del Mezzogiorno del 15 gennaio 1955); Bari, in “Città d’Italia cent’anni fa”; Aragona, Orsino del Balzo e Acquaviva d’Aragona nella contea di Conversano; Bari a Giandomenico Petroni (Viterbo detta anche la lapide apposta il 19 luglio 1968 sulla casa dello stesso Petroni); Giovanni Colella, un socialista d’altri tempi; Pasquale Cafaro nel ricordo di un vecchio amico; Un fratello di Garibaldi commerciante di olii a Bari; Castellana nella preistoria; Edmondo De Amicis e Matteo Renato Imbriani; Vito Nicola De Nicolò; Il carteggio di Giovanni Giolitti e il Mezzogiorno; Postilla a Bari e il Re Murat; Raffaele de Cesare: il giornalista, lo storiografo, il parlamentare. Luci ed ombre.
Convinto assertore del contributo determinante, ma «ampiamente ignorato e sottovalutato», fornito dal Mezzogiorno alla causa dell’Unità d’Italia, Michele Viterbo è, in Puglia, tra i più anziani soci della Società di Storia Patria e ne riveste la carica di presidente dal 1927 al 1931 e dal 1939 al 1943. Più volte designato nei vari Consigli direttivi, viene nominato vicepresidente dal 1966 al 197330.
Dal luglio 1954 in poi, è presidente del Comitato di Bari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano31.
Sotto la sua guida si svolgono importanti manifestazioni, che portano in Puglia studiosi da ogni parte d’Italia, incoraggiando così non solo le ricerche storiche sul periodo risorgimentale, ma anche, come ha scritto Nanni Masi: «a “sfatare non poche leggende”, e a sprovincializzare gli studi storici della nostra regione […]». Al Congresso nazionale tenutosi a Bari nell’ottobre 1958 con grande affluenza di storici e docenti, e alla contemporanea Mostra sull’età risorgimentale realizzata con l’Archivio di Stato di Bari, Michele Viterbo partecipa con il saggio Giuseppe Massari e la sua relazione su «Il brigantaggio e le province napoletane».
Tra gli ultimi convegni svolti dall’Istituto in campo nazionale si ricorda quello del 29-31 ottobre 1966, dal titolo Terra di Bari all’aurora del Risorgimento (1794-1799). Gli apprezzamenti manifestati, non soltanto nella relazione conclusiva, dal presidente nazionale dell’Istituto, lo storico Alberto M. Ghisalberti, bene esprimono il lusinghiero esito di quella rievocazione. All’impegnativo volume degli atti, edito da Laterza nel 1970, Michele Viterbo contribuisce con il saggio Il 1799 a Bari e in Puglia, che viene in seguito pubblicato anche separatamente, sempre da Laterza.
Lo storico Francesco Gabrieli nella sua Testimonianza su Michele Viterbo così scrive: «Le sue qualità di organizzatore, già spiegate con efficienza e inattaccabile integrità sotto il Fascismo (quando egli fu a capo della Provincia e poi del Comune di Bari), si affermarono ancora nel dopoguerra, con la presidenza del Comitato di Storia del Risorgimento e con la preparazione di Congressi e Convegni […]».
Nell’arco della sua vita Michele Viterbo, conferenziere dotto ed elegante32, ha cooperato con oltre novanta testate (quotidiani, settimanali, riviste), ha pubblicato più di settanta tra volumi e opuscoli e circa 3500 articoli prevalentemente a carattere storico, economico e sociale. Muore a Bari il 13 aprile 1973.
Due anni dopo la maggior parte della sua biblioteca, circa seimila tra volumi e opuscoli (vd. Catalogo), è stata donata, per sua volontà, al Comune di Castellana Grotte.
Altre donazioni librarie sono state eseguite nel 2014 in favore della Biblioteca Nazionale di Bari (circa cinquecento volumi) e dell’Archivio di Stato di Bari (circa ottocento), tra cui gli ormai introvabili volumi, via via pubblicati dagli autori antifascisti, nel periodo terminale della guerra, che il Nostro cita o commenta nel Diario.
Sempre all’Archivio di Stato di Bari è stato destinato il prezioso archivio privato di Michele Viterbo, dichiarato nel 1990 di “notevole interesse storico” dalla Soprintendenza Archivistica per la Puglia. L’archivio contiene, tra tanta documentazione, anche una pregevole raccolta di fotografie d’epoca, oltre le delibere podestarili del periodo in cui Michele Viterbo ricoprì quella carica.
Ulteriore documentazione (giornali e volumi) è custodita, nel “Fondo Michele Viterbo”, presso l’IPSAIC – Biblioteca del Consiglio Regionale della Puglia.
Nel 1987 sono stati pubblicati dalla figlia dell’Autore, Silvia, tre volumi inediti, interpretati dalla stessa con metodo e rigore scientifico, con il titolo: Castellana, la Contea di Conversano e l’Abazia di San Benedetto. L’opera parte dalla preistoria, giunge ai primi del Settecento e può considerarsi una storia completa della Puglia. I tre volumi sono stati presentati a Castellana dallo storico del Diritto romano Francesco M. de’ Robertis, che firma anche l’Introduzione, da Aldo Vallone e dalla stessa Silvia Viterbo.
Chi sottoscrive la presente relazione ha curato la pubblicazione degli altri due volumi inediti di Michele Viterbo: Dagli ultimi re borbonici alla caduta del fascismo e il Diario, 1943-1945. Il primo, nel 2006, è stato presentato a Castellana da Pietro Mezzapesa, Augusto dell’Erba e Donato Dino Viterbo, e a Bari, presso la Teca del Mediterraneo, da Vito Antonio Leuzzi e dal giornalista Marco Brando.
Nel 2014 è stata la volta del Diario 1943-1945 (Lupo editore), presentato a Bari presso la Libreria Laterza, dal direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Giuseppe De Tomaso, da Eugenia Vantaggiato, direttore dell’Archivio di Stato di Bari e da Giuseppe Poli. La seconda edizione del Diario, arricchita da documentazione e commenti, è stata resa disponibile ai lettori di questo sito, a partire dal settembre 2020 con il titolo che l’Autore aveva pensato di dare: Diario di un italiano che non va d’accordo con nessuno (vd. p. 156 del Diario).
Nicola Viterbo.